Due giorni fa è uscito un mio fondo sul Sole24Ore (dorso Sud). E' un commento ai dati Istat sulle migrazioni interne. Ve lo posto qui tanto per ricordarvi che esisto. E poi perchè credo che sia importante. Il tema, non quello che scrivo.
Se si hanno a cuore le sorti di un giovane e si pensa di avere una certa conoscenza del mondo è molto probabile che lo si consigli di fare esperienza lontano da casa. Se quel giovane è meridionale, è probabile che ci abbia già pensato da solo e sia andato a lavorare o a studiare altrove.
Il fenomeno non gode di molta attenzione né da parte della stampa né da parte degli studiosi. Ma la ripresa delle partenze dal Mezzogiorno va seguita da vicino sia per quello che ci dice sulla società e sull’economia delle zone di partenza, sia perché i suoi effetti sono spesso favorevoli alle persone direttamente coinvolte ma non altrettanto per le comunità di partenza.
Il trasferimento di residenza dal Sud verso altre regioni sta tornando ad assumere proporzioni rilevanti e i dati dell’Istat riportano l’attenzione su un fenomeno che ha dimensioni più ampie e che si è avviato ormai da una decina d’anni: la nuova mobilità dal Mezzogiorno.
I dati sul movimento della popolazione residente sono un indicatore importante, ma hanno una relazione solo parziale con quello che generalmente si intende per mobilità. Il cambio di residenza riguarda chi, dopo essersi spostato altrove per periodi più o meno lunghi, decide di stabilizzare questa condizione. Il trasferimento è una sorta di certificazione del successo della mobilità, coincide con l’acquisto di casa, col matrimonio, non riguarda tutti quelli che si spostano.
Per molti anni l’apparente paradosso di un Mezzogiorno più disoccupato del resto del paese e non più migrante è stato spiegato con le caratteristiche del mercato del lavoro o con luoghi comuni di tipo socio-antropologico. Ma lo spostamento di lavoratori e di giovani non si è mai del tutto arrestato. E’ dalla metà degli anni ‘90, che la mobilità riprende in modo crescente. Negli ultimi dieci anni le persone che si sono spostate dal Mezzogiorno verso altre regioni hanno ripreso a aumentare e il saldo migratorio interno, su cui pesavano i molti ritorni degli emigrati degli anni ’60 ormai in pensione, ha ripreso a essere negativo. Le regioni che perdono più popolazione sono la Campania e la Calabria, con un saldo negativo nel 2004 rispettivamente del 3,9 e del 4,8 per mille. Non esitono stime sulla mobilità, ma se i saldi dei trasferimenti dal Sud si riferiscono a circa 50.000 persone all’anno, non è azzardato pensare a un fattore 10 per le persone che annualmente dal Sud si spostano per lunghi periodi per lavoro o per studio.
Dopo le due storiche fasi migratorie: quella a cavallo tra 1800 e 1900 e quella degli anni del boom economico (1958-1963) questa terza fase racconta di un Mezzogiorno completamente diverso. Ma anche il Nord è cambiato, le destinazioni non sono più solo quelle delle grandi città, del tessuto dove dominava la grande fabbrica e il lavoro dipendente a tempo indeterminato. Ora si parte verso le città medie dell’Emilia, del Veneto, della Toscana, verso le zone di industrializzazione diffusa, dove più elevata è la domanda di lavoro sia nella manifattura che negli altri settori, compresa la pubblica amministrazione. E spesso si tratta di occupazione temporanea
Questa volta non emigrano più contadini ma soprattutto giovani che vivono nelle città. La partenza è spesso una scelta obbligata, per costruirsi un futuro e per decidere della propria vita, oppure per sfuggire alle trappole del degrado sociale, della disoccupazione, di ruoli familiari tradizionali. E vanno via anche giovani di famiglie con redditi più elevati, con elevati profili di scolarizzazione. Un minimo di disponibilità economica è anzi un requisito per la mobilità. La famiglia non è più beneficiaria di rimesse, ma deve invece finanziare almeno i primi periodi di trasferimento.
La vera novità è costituita dalle donne: prima partivano prevalentemente al seguito del marito, oggi invece partono per seguire percorsi autonomi di inserimento occupazionale, per sfuggire agli effetti economici e alla dimensione esistenziale dei più bassi tassi di occupazione femminile d’Europa: la difficoltà a mettere su famiglia, il crescente rischio di povertà, la diminuzione delle nascite.
Mentre si continuano a cercare cure per quello che è stato definito il “grande malato d’Italia”, il Mezzogiorno perde le sue risorse più vitali e rischia di intraprendere un sentiero di declino demografico che ne aggraverebbe di molto le prospettive.
Due postille:
1. Ho volutamente dato un titolo cretino a questo post per masochismo e per snobismo. Di recente si è aperto un dibattito sulla titolazione piatta e descrittiva, ovvero sulla fine della titolazione creati(v/n)a e allusiva per assecondare i motori di ricerca e essere più visibili. Allora io sto dalla parte dei timidi e invisibili e titolo ad capocchiam (peraltro copiando, mi sembra, Robecchi del manifesto)
2. Il signore in foto non sono io con i baffi, ma un signore tedesco la cui foto è disponibile su Flickr, gratis e con licenza CC.
1 commento:
non so se nei tuoi studi consideri anche i pendosettimanali che tra i miei amici ben venti pur residenti a napoli e con famiglia a napoli lavorano fuori e tornano solo il sabato e la domenica.
un altro impoverimeto ...
grazie per essere tornato! si sentiva la tua mancanza.
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